Riporto qui di seguito un articolo scritto da Angelo Lippo e pubblicato nella rivista d’arte e letteratura da lui fondata: “Portofranco”.
In questo numero risalente al mese di luglio 2011, Angelo Lippo verga una serie di accurate e meticolose recensioni donando “Uno sguardo sulla poesia pugliese contemporanea” come recita il titolo.
Si tratta di un testo nel quale Angelo Lippo non si limita a presentare le raccolte poetiche di poeti e poetesse pugliesi descritte con acribia ma c’è nelle sue parole anche un raccontarsi, un modo di intendere la poesia e la sua funzione civile ed esistenziale.
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Enrico Bagnato, nato a Lecce ma vive a Bari, poeta di lungo corso, autore anche di testi teatrali premiati a livello nazionale e più volte rappresentati, ha sempre tenuto punto fermo l’attenzione nei confronti delle “cose minime” della quotidianità, trasferendole dalla dimensione intimistica a quella universale. Il suo itinerario è di quelli che non consentono deroghe; la cifra poetica si sposta sensibile a quelle varianti che possono indicare nuove possibilità di introspezione, di affermazione di quei valori eterni ai quali l’autore non ha mai rinunciato. Questi 29 brevi testi sintetizzano al massimo e al meglio la precarietà del vivere; la vacuità dell’oggi che transita fra “l’inerzia del tempo e delle cose”, mentre nel momento dell’addio il poeta stila alcuni “ringraziamenti postumi”: ai genitori, ai libri, ai Padri, alle donne, agli amici, e da ultimo “ringrazio il mondo intero/benchè mi abbia deluso”.
Poesia dal fiato lungo, da respirare a polmoni aperti, quella che ci propone Arrigo Colombo nel suo ultimo libro: Sull’estrema soglia, pubblicato nella collezione Graal dell’editore comasco Lieto Colle di Michelangelo Camelliti. L’Autore, lombardo d’origine, attivo in Puglia come filosofo nell’Università di Lecce, dichiara senza infingimenti i modelli culturali ai quali si rifà la sua poetica: in primis T.S. Eliot e Novalis. Del primo è facile intuirne la partitura fondata su varianti ripercorribili e intersecate fra di loro in una sorta di richiamo all’unità nel più ampio dettato lirico. A Novalis sono invece ispirati i tre “Inni alla notte”, un primo assaggio di Quanto Arrigo Colombo ha già in mente, che sicuramente troveranno quanto prima una loro verifica. Preliminarmente c’è da sottolineare quanta e quale è la diversità di questi testi da quelli dai quali siamo sommersi, affidati per lo più al frammentarismo, alle folgorazioni rapide, mentre Colombo preferisce volare alto, abbracciare le nuvole del cielo e poi pian piano scendere giù verso le pianure, da cui riprendere a librarsi in uno slancio irripetibile. I suoi testi non indugiano al descrittivismo fine a sé stesso, piuttosto preferisce la nominazione ripetitiva ma propedeutica ad allargare il significato e il senso delle proporzioni. Ogni “variazione” o “canzone” si snoda in una maratona di pensieri, di riflessioni acute, dalle quali partono continuamente altre indicazioni, altre ipotesi di approfondimenti, per potersi specificare nella totalità della presenza. Difficile segnalare quel brano o un altro, perché ogni momento, ogni tensione poetica è un unicum da non lasciarsi sfuggire, da mettere a fuoco e scoprirne le qualità più profonde e necessarie. Perché tale diventa questa circumnavigazione di pensiero, di scavo all’interno dei significati e dei suoi intrecci spirituali. La poesia, allora si fa circolarità di azione e di vita, tensione da tenere fermamente salda per combattere “L’ombra”, per sconfiggere “il male del mondo immenso incommensurabile, / vincerlo tuttavia una lotta lenta tenace / lotta di secoli di un’umanità intera / contro l’ombra la tenebra”. Una battaglia che Arrigo Colombo ha fatto sua declinando verso dopo verso la sua idea di poesia, la sua necessità utopica di dire quello che lo circonda e lo attira.
Anna Marinelli è poetessa che ha al suo attivo un lungo e profondo rapporto con la poesia, testimoniato sin dal suo esordio più importante di Animismo domestico, che inaugurava una collezione di poesia contemporanea, Delphinus, sempre con “portofranco2, divenuta negli anni punto di riferimento nella storia della cultura pugliese del nostro tempo. Da quel momento, la sua ascesa è stata costante e direi inarrestabile, lungo un percorso costellato non soltanto ed unicamente da pubblicazioni poetiche ma anche di prosa narrativa, ad esempio i racconti de La Sirenetta, fino allo studio e alla valorizzazione di tradizioni, usi e costumi della comunità sangiorgese, dove la Marinelli è nata e vive svolgendo anche una proficua attività di operatrice culturale a diversi livelli. Ora Anna Marinelli ci offre un altro spaccato della sua vocazione poetica, che si sviluppa in una dimensione duplice come richiamato dal titolo della raccolta, Di mare e di terra (pubblicazione impreziosita dalle immagini di opere del Maestro Pietro Guida, manduriano, scultore di grande spessore culturale), ma che pure s’incunea in un’unica realtà, quella di una circolarità delle suggestioni alle fondamenta della sua vocazione. È subito evidente come il verso della Marinelli si dispieghi fresco, arioso, senza elucubrazioni linguistiche, per cui sa come catturare l’attenzione del lettore e condurlo per mano nei labirinti della sua anima. Qui entra in gioco la folla delle immagini: il vento, il mare, i fiori, il grano, i vitigni, che raccontano come la poetessa non si lascia andare mai Oltre, cioè non affida la propria emozionalità e il proprio verso ad uno spazio inintelligibile, ma preferisce ascoltarne gli aromi e lasciarsi avvolgere dai profumi che essi emanano. Così, la parola poetica si snoda in un andirivieni di richiami evocativi, che alla fine si mostrano nella loro interezza, dispiegando un ventaglio di proposte quanto mai suggestive. Ma quel che più emoziona in questa raccolta sono le liriche che parlano delle donne, viste nella loro muliebre bellezza e nel fascino che sempre sanno amplificare anche nei piccoli gesti. C’è, ad esempio, nella poesia Le donne di Tagore, un’amplificazione che tocca le corde di una melodia rarefatta, luminosa, e che culmina in un invito d’amore quando “alla fine del giorno / non hanno vergogna a mostrare / l’incantato giardino / al loro giardiniere”. Queste donne della Marinelli ora “intrecciano conchiglie di sorprese” o “sciolgono silenzi di vetro”; ancora “sigillano pulviscolo di solitudini” e giungono a sublimarsi nel momento in cui “le mani delle donne spalmano carezze di nutella / su fette d’anima fragrante”. E questa limpidità la si ascolta ancora più fragorosa in Avatar, laddove la poetessa si scruta fino in fondo e aspettando a riva l’ultimo marinaio, si pronuncia nella sua più intima fragilità: “sono Anna dal ventre di terra / e tu?”. Di mare e di terra, comunque, qualità che ci sembrano la cifra stilistica ed umana di questo suo viaggio, impastato di zolle e di onde, ferite nell’abbacinante luce delle stagioni che trascorrono sul calendario del Tempo. Sempre e comunque alla ricerca dell’”afflatto con l’Immenso”.
Quarant’anni di poesia e prosa sono il condensato dell’avventura culturale di Rita Marinò Campo, sicuramente scrittrice fertilissima se in quest’arco di tempo ha pubblicato una cinquantina di titoli (da ultimo questo “Ali controvento” (edizioni portofranco) arricchito e impreziosito dai disegni di un illustre artista, lo scultore grottagliese Vincenzo De Filippis), che hanno trovato l’attenzione della critica più qualificata, ma soprattutto perché ha saputo ritagliarsi e disegnarsi un ruolo di primissimo piano nel panorama della lirica locale, regionale e nazionale. Di Rita Marinò Campo, io che sono stato compagno di viaggio di questa nutritissima avventura, potrei raccontare episodi, momenti, situazioni attraverso le quali il lettore potrebbe ricavare un ritratto inedito e vivace di una persona che si è nutrita ogni giorno di “pane poetico”, perché il suo bisogno di creare, di comunicare agli altri il proprio vissuto, di palesare la folla dei sentimenti che le vorticano intorno, è impellenza che si identifica benissimo con il nutrimento quotidiano. La necessità di attingere alle sorgenti della parola poetica, fa sì che Rita Marinò Campo non lasci trascorrere minuto della propria esistenza, senza aver messo nero su bianco: espressione di un amore che attinge spesso alle Sacre Scritture e dalle quali estrae il proprio messaggio di spiritualità da lanciare al proprio fratello. C’è nella lirica di Rita Marinò Campo una tensione, innegabile, verso il Sacro, ma è altrettanto vero che non scade mai nella retorica-fideistica, tutt’altro; essa imposta il proprio cammino autonomamente e si erge austera come sentinella attenta della realtà circostante, di sé e del proprio simile. Così, la poetessa si dimostra sensibile ad ogni movimento che anima il mondo, interpretandolo dall’interno della propria coscienza morale, etica e di Fede, in una interazione di significati che vanno oltre la staticità alla quale il Tempo degli uomini spesso ci soffoca nelle proprie maglie restrittive. L’ampiezza degli interessi poetici dei quali Rita Marinò Campo si fa portavoce impone al lettore un’attenzione non sporadica né effimera, ma è il paese-partout che delimita e nel contempo determina una dimensione di qualità davvero insolita. Le accensioni metaforiche, i cromatismi linguistici, le partiture a più tempi situano la sua poesia al di là di ipotetiche o storiche correnti, sulle quali spesso si tracciano le coordinate per redigere i repertori letterari. Rita Marinò Campo si muove a proprio agio in un mondo popolato di profumi ed essenze, di persone, di animali, un mondo di cui si fa interprete acuta, ma in grado di scavalcare il dato oggettivo per realizzare un mosaico intrigante e a volte sorprendente per qualità sensoriali. Sarebbe lungo e forse noioso tracciare qui un percorso emblematizzante di questo processo di assimilazione, per il cui tramite Rita Marinò Campo sviluppa il suo disegno edificante, eppure non può essere sottovalutata la possibilità di incidere e di scovare quelle sotterranee linfe che sono alle fondamenta della sua ricerca lirica ed espressiva. Un lavoro di scavo interiore che si appalesa oltre il dato dell’hic et nunc per realizzarsi in una condizione altra, da cui attingere lo stimolo per approfondire i tempi e le modalità di una realtà che non rifugge dalle domande, dalle lacerazioni, dalle ferite, semmai queste sono il filo rosso nel quale ella riversa la sua capacità di raccontarsi nella pienezza del proprio essere: donna, sposa, madre, sorella di un’umanità dolorante e mortificata dalle brutture delle guerre, dalle violenze, dalla stupidità degli uomini. La poesia di Rita Marinò Campo è la fresca acqua di sorgente che giunge a noi, stanchi pellegrini di un mondo pianificato, strumentalmente negativizzato, alla quale dobbiamo e possiamo abbeverarci perché da essa sgorga l’effluvio della vita e avvertire in essa il soffio dell’eternità. Credo sia in questo il traguardo ultimo che Rita Marinò Campo si pone con la sua scrittura fresca e ricca di spunti riflessivi.
Rita Santoro Mastantuono intesse libro dopo libro la sottile trama di una poesia che si fa sempre più urgenza di comunicazione, volontà di aprirsi alle dinamiche della vita e del tempo. La sua parola si pone specularmente a sottolineare le contraddizioni che la quotidianità pone ad ognuno di noi. questa silloge “Quando disertano le stelle” (Antonio Dellisanti editore) ci rafforza la fisionomia di una poetessa lontana da ogni formula alchemica sia nei risvolti contenutici sia in quelli linguistici, puntando essenzialmente ad una verifica interiore. È, in vero, rintracciabile nel suo percorso una specie di connotazione prioritaria, dal momento che predilige parlare di affetti, sentimenti, emozioni, tutte entità vissute e vere. La sua parola poetica non deflette dal bisogno di esternare quello che sente dentro e lo fa con una immediatezza che la porta ad evitare ogni e qualsiasi intoppo di natura esterna. I suoi versi hanno un ritmo calzante, che non concedono respiro, perché è la vita a non permetterci soste. La parola s’impone nella sua alterità, a dimostrazione della sua necessità di essere e di esistere in quella particolare dimensione. Nella prefazione Giorgio Linguaglossa rivela alcune sinergie di struttura ermetica e lancia sul piatto i nomi di Bigongiari, Fatto, Sinisgalli; se ciò è vero, e forse lo è, c’è da rimarcare un aspetto essenziale: in Rita Santoro Mastantuono tutto nasce e si sviluppa all’insegna della pulizia. La sua stessa personalità è mille miglia lontano da ogni tipo di rifacimento, perché ama parlare direttamente, senza intermediari e senza affidarsi ad altri per mettere a nudo la sua verità. C’è, in tutta la poesia di Rita Santoro Mastantuono, un’urgenza di esprimersi, di andare oltre le apparenze e soprattutto oltre le ambiguità, con il coraggio di mettersi a confronto e proporre la sua personale visione del mondo e delle cose. Una realtà spesso oltraggiata da guerre ed ingiustizie, schiaffeggiata nella sua dignità, ma è sufficiente che riattraversi la vita insieme al suo “compagno” per sentirsi irradiata d’azzurro, di provare quei sentimenti indissolubili che l’hanno tenuta legata a lui e avere il coraggio di sentire che <<anche se appassiti d’anni / e con un dolce sorriso / ripeterci all’infinito / la parola amore>>. Ed è il miracolo univoco d’una parola che si fa essenza di Vita.
Cinquant’anni di esperienza poetica di Edio Felice Schiavone sono consegnati alla storia in poco più di una dozzina di volumi, che ben sintetizzano però l’evoluzione dell’autore, dal primo del 1961 (La morte non ha smorfia del teschio, editore Gastaldi); ventisei anni dopo, nel 1987, (Io e il mio Sud, edizioni Cappelli) ed ora questo secondo tomo di Schegge a coronare un percorso senza funamboliche giravolte. La cifra poetica di Schiavone ha il merito di una linearità ormai smarrita nel coacervo delle inquietudini spesso alle fondamenta di moltissima produzione contemporanea. Il suo timbro è diretto, senza circonlocuzioni, accelerazioni o freni, poiché si coglie subito il senso di una sua determinatezza e di una sua originale peculiarità. I temi toccati da Schiavone sono vari e molteplici, ma su tutti regna la profondità di un linguaggio essenziale, che non si concede al vuoto panegirico preferendo l’innesto sul tronco della ricerca e dell’approfondimento. Anche in questa raccolta, come in quelle che l’hanno preceduta, un’ampia schermatura Schiavone l’affida ai temi sociali e civili, in alcuni casi con sferzanti affondi nei confronti del “politichese”, che attanaglia ormai gran parte dell’intera Italia. Non risparmia, Schiavone, penetranti sciabolate ad una visione secessionista in atto nei confronti del Mezzogiorno, rammemorando agli ignavi che la nazione non può essere spaccata in due da rigurgiti individualistici. Il verso schiavoniano si dispiega austero, robusto come l’acciaio, eppure flessibile nella sua dimensione lirica, senza mai indulgere all’intimismo fine a se stesso. Infatti, la poesia di Schiavone schiva il pericolo di rimanere imbrigliata negli “ismi” del “decadentismo lirico”, quello, per intenderci, che soffia sull’Io e non dispiega il volo verso orizzonti più ampi. Questo accade anche quando parla di affetti e sentimenti tutti personali, emblematica “Ritorno ancestrale” dedicata alla madre, il poeta va oltre la temporalità degli accadimenti e innesca elementi di forza evocativa di grande tensione spirituale. La figura materna si staglia netta nella sua limpidezza morale. Il ricordo non si sposa affatto con il “nostalgismo” così caro a tanta poesia, ma tende ad incunearsi nella coscienza dell’altro/a per carpirne le più segrete e recondite verità. Schegge sicuramente rappresenta un momento importante nella storia di Schiavone, che non mancherà di offrirci ulteriori testimonianze della sua straordinaria vitalità poetica.
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